Il brano è tratto dall’introduzione di L. Gerosa al volume 8 degli “Scritti 1911-1926”, ove si precisano i fatti che portarono ai numerosissimi arresti di dirigenti e militanti del PCd’I (quasi tutto il Comitato centrale e ben 72 segretari di federazione) e quindi al famoso processo che si svolse nell’ottobre 1923. In questa situazione Bordiga scrisse un memoriale al tribunale (nel volume 8 alle pagine 163-253) dove rivendica tutte le posizioni dei comunisti e dimostra l’infondatezza dell’accusa.
Pubblicandolo in volume nel 1924 il CE del partito lo indicava come «qualcosa di nuovo a proposito del metodo difensivo che un partito rivoluzionario non solo per le frasi ma anche per il suo reale allenamento all’azione deve sapere adottare rivendicando la integrità del suo bagaglio ideale, e nello stesso tempo sventando i tranelli tesi alla sua attività».
(Il volume originale del 1924 è disponibile a questo link)
Il 29 dicembre 1922 l’«Avanti!» aveva pubblicato un appello del IV congresso dell’IC al proletariato italiano, firmato congiuntamente dai membri del presidium dell’IC e delle due delegazioni italiane, socialista e comunista. La direzione del Psi, riunita il 30 e 31 dicembre, aveva approvato con l’astensione del segretario Fioritto la risoluzione sulla fusione che conteneva i famosi 14 punti, ma il 3 gennaio il quotidiano socialista, fece seguire l’articolo di Serrati Posizioni polemiche sulle condizioni di Mosca e la fusione da un fondo di Pietro Nenni in cui si chiedeva di consultare gli iscritti al partito a mezzo referendum, proposta accolta a grande maggioranza dalla sezione di Milano e dalla stessa direzione. Poche settimane dopo un altro manifesto, La lotta contro il fascismo italiano, diretto agli operai e ai contadini di tutti i paesi, fu reso noto in Italia da un comunicato della agenzia Stefani, e riportato il 6 febbraio da tutti i quotidiani italiani, ricevendo così una diffusione enorme, di gran lunga superiore a quella che il Partito comunista avrebbe potuto organizzare con le sue sole forze, che evidentemente impressionò non poco il governo fascista. Il direttore generale della P.S. De Bono ordinò a tutte le questure del Regno perquisizioni e l’arresto di tutti coloro che avessero copia del manifesto di Mosca, evidentemente per ordine di Mussolini. Il 16 fu arrestato a Teramo Smeraldo Presutti, dopo una perquisizione in cui fu trovato a casa sua un progetto di programma di azione del partito comunista e vari stampati e libri di propaganda. Presutti confessò di aver fatto parte di una commissione di una ventina di persone, incaricata di andare a Mosca per discutere il programma. Fu lui a fare il nome di Bordiga e di altri sette membri della delegazione ed in seguito alle sue dichiarazioni scattarono le denunce penali. Un primo procedimento penale contro i firmatari italiani, comunisti e socialisti, del manifesto del IV congresso fu avviato dalla questura di Milano. Il 26 febbraio la questura di Roma denunciò Bordiga e gli altri quattro membri dell’esecutivo: Fortichiari, Grieco, Terracini, Repossi (che godeva dell’immunità parlamentare), e con loro Teodoro Silva e Dozza (rispettivamente amministratore e funzionario del partito), quali responsabili dei reati previsti dagli articoli 246, 247 e 251 del Codice Penale, in rapporto agli articoli 118 e 119. In seguito alla scoperta e alle perquisizioni delle sedi illegali romane del partito (il C.E. verrà trasferito a Milano), furono sequestrati documenti, circolari, cifrari, denaro, tutti i recapiti riservati ed illegali che collegavano al centro federazioni e sezioni. Configurandosi l’ipotesi di reato di movimento armato organizzato al fine di sovvertire le istituzioni dello Stato, l’autorità giudiziaria aggiunse anche l’art. 134 n. 2 in relazione agli articoli 110-120, per il delitto di cospirazione, estendendolo ad altri già arrestati: Berti, D’Onofrio, e altri due membri della Federazione giovanile. Il Ministero dell’Interno diede disposizioni a tutte le questure del Regno di procedere all’arresto in massa di operai e dirigenti politici comunisti e socialisti con la medesima accusa di «complotto contro la sicurezza dello Stato». Tra la fine del 1922 e il febbraio 1923 furono arrestati 2236 comunisti di essi 1634 non furono denunziati e rilasciati, gli altri furono invece deferiti all’ autorità giudiziaria. Bordiga abitava clandestinamente a Roma in un appartamento in via Belsiana 56, che divideva con Teodoro Silva, fingendosi viaggiatore di commercio. Fu arrestato la mattina del 3 febbraio. La polizia aveva individuato l’ufficio illegale del partito in via Frattina 35 a Roma, da pochi giorni in funzione e ritenuto il più sicuro, in cui era conservato l’archivio del partito. Avendo notato movimenti insoliti quella mattina fu deciso di mettere in salvo documenti riservati e denaro altrove. Bordiga fu fermato all’uscita dello stabile, avendo con sé oltre a diversi documenti, 2500 sterline inglesi. Della provenienza delle banconote inglesi molto si discusse al processo - secondo l’accusa erano state emesse dalla Banca d’Inghilterra su richiesta della Banca Barclays di Londra e qualche giorno dopo «girate» da Krasin, rappresentante del governo dei Soviet a Londra - ed anche in seguito, specie sugli organi di stampa di orientamento nazionalista, che denunciavano la dipendenza dei comunisti italiani dal soldo straniero. Nel 1961 il giornalista Oreste Mosca, illustrando l’attività antistalinista della scrittrice Suzanne Labin, ebbe parole di elogio per la strafottente dichiarazione di Bordiga al processo secondo cui quel denaro rappresentava un naturale contributo della centrale di un partito internazionale ad una sua sezione. Sulla faccenda delle banconote è ritornato quasi quarant’anni dopo Valerio Riva, sostenendo che quel finanziamento proveniva non da Mosca come era stato detto e si era continuato a credere, ma dal governo inglese, elargito al partito di Bordiga affinché creasse con la sua azione difficoltà alle trattative in corso tra Mussolini e il governo sovietico. La tesi di Riva - un esempio da manuale di come si possa interpretare a rovescio il senso delle cose richiamandosi accuratamente a fatti, circostanze, documenti d’archivio - è stata smontata da Arturo Peregalli, con puntuali osservazioni critiche, tagliando la testa al toro: l’esistenza di una lettera del commissario del popolo agli esteri del governo sovietico Maksimovic Litvinov del 14 marzo 1923 a Stalin, da un anno segretario del partito comunista bolscevico, e alla Banca di Stato russa, in cui il diplomatico sovietico lamentava nel trasferimento di quel denaro la violazione delle «regole di riservatezza» che imponevano «di non utilizzare quelle banconote per gli scopi del Comintern». Bordiga fu rinchiuso nel carcere di Regina Coeli a Roma, riuscendo a comunicare quasi giornalmente con l’esterno - di tali comunicazioni però non è rimasta traccia prima del mese di giugno. Non conosciamo dunque le reazioni di Bordiga agli avvenimenti che si svolsero da febbraio fino all’ esecutivo allargato di giugno a Mosca. Il 5 marzo, su proposta di Rakosi, rappresentante dell’Internazionale in Italia, fu riorganizzato il comitato esecutivo del partito: ne facevano parte Fortichiari, Grieco, Repossi, Scoccimarro, Terracini e Togliatti, mentre nel comitato centrale furono cooptati Scoccimarro, Tasca, Graziadei e Ravera. Da Mosca Gramsci e Gennari fecero sapere che tra i membri dell’esecutivo, specialmente i russi, si faceva dell’ironia sull’ arresto «fortuito» di Bordiga e sulla efficienza dell’apparato illegale del partito, sempre vantato come solido e sicuro dai comunisti italiani.
(Introduzione, pagine IV-VIII)