Libia

Contro la guerra mentre la guerra dura

Si trovano dei compagni la cui opinione sulla guerra può riassumersi in queste parole: La guerra non si doveva fare, ma ora che siamo impegnati come si fa ad essere contrari?

Chi dice questo ritiene evidentemente desiderabile — anche nell’interesse del proletariato — che la guerra finisca bene e sia coronata dal successo e dalla gloria per le armi italiane. Io credo che questa sia una concessione vera e propria all’idea nazionalista, e derivi dal falso concetto dell’interesse del proletariato che molti hanno, e che ha condotti tanti compagni alle degenerazioni più aberranti del socialismo.

Quando il socialismo afferma la solidarietà degli sfruttati che lavorano, trasformando l'interesse di ognuno di loro nell'interesse collettivo della classe, arriva anche a posporre il bene di alcuni individui al bene collettivo, determinando dei sentimenti di rinunzia e di sacrifizio in mezzo ai proletari più coscienti dell’avvenire di classe. Proprio nello stesso modo l'interesse attuale degli operai si trasforma nel bene futuro dell’intiero proletariato, e le masse socialiste divengono capaci di rinunzie collettive alle piccole conquiste di oggi, in vista della grande conquista dell’avvenire.

Risulta quindi logicamente che il socialismo deve avversare tutti quei movimenti che possono allontanare l'emancipazione del proletariato spegnendone in esso la coscienza, anche quando rappresentino sotto qualche forma una miglioria delle sue condizioni attuali.

Ora la guerra avversa e ritarda la grande conquista rivoluzionaria delle classi lavoratrici, e spegne in esse la coscienza del socialismo, in due modi essenziali.

In primo luogo la guerra sancisce il principio della violenza e della prepotenza collettiva come fonti principali di progresso e di civilizzazione, idealizzando la forza brutale, e tentando cosi di distruggere la nostra visione di una società basata sulla concordia e la fratellanza umana, e contrastando la logica evoluzione dei rapporti sociali nel senso della abolizione del diritto del più forte (e qui si ricordi che noi, a differenza degli infrolliti pacifisti borghesi e... tripolini non neghiamo che in determinate circostanze storiche la violenza possa essere un fattore inevitabile di evoluzione).

In secondo luogo poi la guerra ha un altro effetto: illudendo le masse che il loro benessere sorga dal benessere della nazione, dalla sua forza o dignità, e che per questo scopo esse devono rinunziare ai dissensi sociali, creando in esse l'artificiale idealismo patriottico, assicura alla borghesia il suo dominio di classe poiché induce nei lavoratori la rinunzia alla lotta contro lo sfruttamento che li dissangua insaziato nell'interno della patria, mandandoli a farsi uccidere dagli stranieri.

Riduciamo quindi il problema ai suoi termini schematici: guerra ed esaltazione nazionale, glorificazione della delinquenza collettiva, assopimento della lotta di classe, allontanamento della rivendicazione dei diritti proletari e della trasformazione sociale. Seguitiamo logicamente: Se la guerra è vittoriosa e trionfale per la nazione ne soffrirà il proletariato, non direttamente, ma per l'allontanamento indefinito della sua riscossa.

Ecco perché noi, contrari alla guerra in teoria, la avversiamo in pratica, senza scrupolo di compromettere il governo nazionale, rompendo l'unanimità della nazione.

Tutte le altre argomentazioni anti-tripoline sono accessorie. Quando noi diciamo che la guerra è dura e difficile, che la situazione diplomatica oscura, che la colonizzazione tripolina è un mito, e che la conseguenza di tutto ciò sarà il danno e la rovina della politica e dell’economia italiana, non dobbiamo fare neanche supporre a chi ascolta che se la Turchia avesse ceduto in dieci giorni, e la Tripolitania fosse un Eden, questa guerra ci troverebbe meno avversi. Guai se questo si fosse verificato, per l'avvenire del proletariato in Italia!

Queste obiezioni di fatto che noi facciamo all’opportunità della guerra, hanno la loro importanza solo per dimostrare questo: in alcuni casi la borghesia ha interesse a portare un danno rilevante alla nazione, avventandola in una inutile guerra, purché ne tragga come compenso una rifioritura di patriottismo e la conseguente attenuazione della lotta di classe. Questo vale a provare la malafede dei fautori primi della guerra, e ci dà l'altro lato della critica all’idea nazionalista, che possiamo così riassumere:

Gli interessi della nazione non sono quelli della classe lavoratrice. Non sono poi neanche quelli della classe borghese, che non esita a recar danno alla patria, purché ne possa agitare il bandierone dinanzi agli occhi del proletariato. Quindi nessun interesse comune esiste tra dominanti e dominati; il concetto di nazione e tutto l'idealismo patriottico sono sofismi puri, e la realtà della storia consiste nella lotta sociale delle classi.

Il proletariato lotta in tutto il mondo lealmente, alla luce del sole, contro lo sfruttamento del capitale. Ma la borghesia che tenta di ammansirlo in nome della patria fa come colui che si avvicina all’avversario sorridendo e gettando la spada, per piantargli a tradimento il pugnale nel cuore.

La religione è un’arma di dominio sociale, come lo è il patriottismo, e noi siamo gli eretici della religione patriottica.

Si può citare Gustavo Hervé, oggi che i destri chiamano herveista Filippo Turati?

Amadeo Bordiga

Da «L’Avanguardia», n. 254, 25 agosto 1912.

[Volume I degli Scritti 1911-1926, pagine 85-87]